Cemento e Liguria costituiscono un binomio tristemente famoso ormai da diversi decenni, quando il boom economico diede il via alla febbre del mattone in tutta la Penisola. Nel romanzo La speculazione edilizia di fine Anni Cinquanta Italo Calvino, riferendosi alla città di Sanremo, parlava di “squallida invasione del cemento”, espressione ancora oggi più in voga che mai.
Ai giorni nostri la situazione è in continuo peggioramento, basti pensare che l’ultimo bollettino Ispra in merito al consumo di suolo in Italia denuncia un aumento del 10% della superficie impermeabilizzata con lo scopo di fare spazio a processi insediativi e infrastrutturali. E se la Liguria presenta dati positivi per quanto riguarda il consumo di suolo pro capite, ci si accorge subito che si tratta di uno specchietto per le allodole. In relazione al totale di territorio regionale i valori di suolo perso non sono incoraggianti, arrivando infatti a superare la media nazionale. Questo fa sì che, complice la sua morfologia accidentata, la Liguria sia tra le prime regioni per il numero di eventi legati al dissesto idrogeologico.

Di fronte alla dittatura del cemento, però, c’è ancora qualcuno che resiste. Ne ha parlato Laila Bonazzi su Vanity Fair dello scorso dicembre, dando voce a un progetto di rilievo che la fotografa Greta Stella ha deciso di realizzare nella sua terra. CEMENTUM – suolo perduto e terre resistenti è un reportage per immagini che denuncia la cementificazione in Liguria dal boom economico ai giorni nostri.
Nelle sue foto a parlare sono le geometrie crude di costruzioni che non trovano armonia con il paesaggio, dalle Lavatrici di Genova ai palazzoni di Borghetto Santo Spirito, passando per scheletri di edifici mai finiti e abbandonati al degrado. In mezzo a tanta desolazione, si intravede qualche spiraglio in quegli scatti che ritraggono chi non rinuncia a resistere, nonostante tutto. La signora Paola Cenere, che a 79 anni continua a coltivare il suo orto tra i palazzi di Loano, e Gabriele Timossi, che ha fatto rivivere la proprietà del nonno sulla collina di Genova allevando asini, capre, oche e galline.
Una Liguria resiliente, che offre i suoi frutti nelle botteghe dei tipici budelli all’interno dei borghi in riva al mare da Ponente a Levante, là dove il tempo sembra essersi fermato tra i profumi della focaccia e l’odore di salsedine. Eppure, nell’incanto di un’immagine di vita semplice che ricorda il passato, nel corso dei decenni le coste si sono trasformate con un’edilizia selvaggia e, là dove non potevano arrivare le abitazioni, si sono insediati i porti turistici.

La Liguria è la regione con il maggior numero di posti barca in Italia, come ha spiegato qualche anno fa l’avvocato Fabio Balocco (che ha curato la pubblicazione Il mare privato, edito da Altraeconomia) e i porti nascondono l’escamotage di consentire nuove cementificazioni sotto le mentite spoglie di edifici di servizio. Ma la biodiversità delle acque marine rimane profondamente minata, così come l’integrità delle coste, che sono ancor più sottoposte al fenomeno dell’erosione.
Uno degli esempi più eclatanti è il porto di Aregai a Santo Stefano al Mare nella provincia di Imperia, definito modernissimo e accogliente, che fa a pugni con la vicinissima pista ciclabile del Ponente ligure, ricavata dal recupero della linea ferroviaria litoranea dismessa. Nei pressi è presente, poi, la Secca, una località subacquea di notevole valore, per la quale è stata richiesta l’istituzione di un’area marina protetta.
Tipologie di turismo contigue e diametralmente opposte che non fanno altro che rappresentare la nostra realtà, perché, alla fin fine, anche volendoci indignare per le continue violenze all'ambiente e al paesaggio, al prossimo weekend, così come nei prossimi mesi estivi, qualcuno sarà disposto, in un moto di ribellione, a rivalutare la propria idea di vacanza? Chi è senza peccato scagli per primo la pietra.